Davvero Olivetti doveva chiudere? Il racconto di un testimone

- Parliamo dell'azienda che ha creato prodotti unici e influenzato il modo in cui utilizziamo la tecnologia oggi...
Olivetti è stata fondata ad Ivrea il 29 ottobre 1908, il primo "negozio" fisico nacque a Venezia in piazza San Marco, progettato dall'architetto Carlo Scarpa nel 1957 commissionato da Adriano Olivetti; esso non sarà destinato ad essere un vero e proprio spazio di vendita per le macchine da scrivere dell'azienda, ma bensì ad essere uno showroom "un biglietto da visita" che incarnava la filosofia e produzione unica di Olivetti.
All'apice della sua fioritura Olivetti contava più di 75mila dipendenti, pensate esattamente quanti ne ha ad oggi la Apple. L'azienda aveva stabilimenti in Germania, Brasile, USA, progettati anch'essi da illustri architetti e designer proprio come a Venezia.
Adriano Olivetti crea un idea di fabbrica nuova, completamente diversa dalla chiusa e austera Fiat.
Anche all'interno della fabbrica l'ambiente era diverso: durante le pause i dipendenti potevano servirsi delle biblioteche, ascoltare concerti, e non c'era una netta divisone tra ingegneri e operai, in modo che le competenze e conoscenze fossero al livello di tutti, l'azienda accoglieva anche artisti e scrittori; l'imprenditore Olivetti riteneva che la fabbrica non avesse bisogno solo di tecnici ma anche di persone in grado di arricchire il lavoro con a creatività e sensibilità, basti pensare che l'Olivetti ha ottenuto il maggior numero di compassi d'oro (16),vinti da singoli designer per alcuni prodotti tra cui "Lettera 22", "Divisumma 24"e "Valentine" che è inoltre presente nella mostra permanente del Moma (Museum of Modern art) di New York (su Valentine leggi anche: Olivetti Valentine, un'icona di design)
Olivetti è stata innovazione, tecnologia e arti liberali che si fondono per creare prodotti che hanno l'uomo al centro e non il profitto o il semplice progresso tecnologico.
Un tale Vittorio Valletta, all’epoca amministratore delegato di FIAT, subentrò in Olivetti alla morte di Adriano Olivetti nel 1960. Durante l’assemblee di entrata di Fiat nel capitale di Olivetti disse:
«La società di Ivrea è strutturalmente solida, potrà superare senza grosse difficoltà il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana può affrontare»

Showroom Olivetti a Venezia (piazza San Marco)            
La minaccia da estirpare, così definita da Valletta, fu la condanna dell'Olivetti: l’essersi lanciata troppo timidamente nel nascente mercato dell’elettronica di consumo.
"Ed è vero che ci possono essere altre mille motivazioni, ma tutto è nato qua". 
Cosi parte il racconto di Giampaolo Cassinari, un lavoratore e testimone dell'azienda Olivetti e della sua storia.
Riportiamo qui un estratto delle sue memorie che possano dare un'idea della complessità e dei misteri che ancora oggi avvolgono l'azienda e la sua fine, rievocata in modo doloroso e critico da Cassinari.

«Credo che da tutto ciò, aldilà della legittima delusione nell’apprendere come sono andati i fatti, si possa acquisire qualcosa di prezioso: in nessun caso la resistenza al cambiamento e all’innovazione ha fatto bene a un’azienda.
Aziende che non hanno voglia di cambiare sono quelle che prima o poi verranno superate e declassate da altre realtà, in un paese tradizionale come l’Italia questo rischia di trasformarsi nella causa di morte di tante imprese. Così in sintesi potremmo commentare la notizia data entusiasticamente dai giornali della nomina di Ivrea a Patrimonio dell’Unesco. Un bel premio, dirà qualcuno, un riconoscimento che però va contro lo spirito più profondo e contro la storia di coloro che si vogliono premiare. Perché il sito industriale di Ivrea non voleva diventare un’opera d’arte, né un bel monumento, tantomeno un raro castello, o un borgo folkloristico. E il fatto che oggi solo questo gli venga riconosciuto, è la sconfitta più dura da digerire.
Giampaolo Cassinari (a sinistra) con un commilitone durante il servizio militare

Ivrea era la sede di una fabbrica eccezionale, di un’impresa che fino alla morte improvvisa del suo ideatore, era la prima al mondo nel suo settore, per qualità e originalità dei prodotti, per profitti, investimenti, innovazione tecnologica. Un brulicare di nuove idee, un’azienda che aveva insegnato a tutti un nuovo modello di gestione del personale e di impatto sul territorio, avanzato per l’oggi, incomprensibile ieri. L’Olivetti era soprattutto una cosa viva. E trattare la creatura di Adriano Olivetti – ora che l’Olivetti è morta e stramorta – come se fosse una bella opera d’arte del passato, dargli un premio proprio per il fatto di non essere più ciò che solo voleva essere, è un’insolenza clamorosa. Una vera e proprio provocazione, evidentemente frutto di quella stessa mentalità – in molti casi dalle stesse persone – che hanno fatto morire colui che giustamente è stato definito lo Steve Jobs italiano… Se non fosse che sarebbe molto più esatto chiamare il papà del Mac e dell’Iphone come l’Olivetti americano.
Insomma fa una certa rabbia vedere che tutto ciò che ci resta della maggiore realtà industriale italiana è un monumento inanimato, vuoto, da conservare in formalina come se fosse uno scheletro di un animale estinto. 
Adriano Olivetti, 1957                   
Basti dire che Adriano Olivetti per gran parte della sua vita fu osteggiato dall’ambiente industriale italiano. Olivetti, tanto per dire, non faceva nemmeno parte di Confindustria, era considerato una scheggia impazzita nel sistema. Quando poi decise di lanciarsi alla guida di un movimento politico che cercasse di diffondere a livello nazionale quegli stessi valori che avevano fatto grande Olivetti a Ivrea, si scatenò la guerra e gli insulti. Basterebbe andare a leggere cosa si pensava allora in Fiat (Valletta) o in Confindustria (Costa) di Olivetti, delle sue idee della sua fissazione a retribuire e a trattare i suoi operai come i veri protagonisti del successo. Tutto l’odio contro quello che fu addirittura definito come «l’industriale rosso». Basterebbe andare a rivedere cosa accadde alla Olivetti, morto Adriano, con una sequela di scelte scellerate e contraddittorie, volute da Cuccia e poi perseguite dalla famiglia Agnelli, dal gruppo De Benedetti, Colaninno e da tutto il «Gotha» del capitalismo italiano, che finalmente aveva potuto mettere le mani sui resti di Ivrea, persuaso a realizzare esattamente il contrario di quanto avrebbe fatto Adriano, normalizzando l’Olivetti, disattendendo tutti i principi fondamentali che avevano ispirato l’azione di Adriano.
Così l’Olivetti, la grande Olivetti che aveva insegnato lo stile e la qualità dei prodotti italiani nel mondo, scomparve (nel 2012), non per un fato avverso (la morte improvvisa di Adriano), ma per la deliberata incapacità e arretratezza dell’imprenditoria italiana a riconoscere che il successo dell’Olivetti dipendeva dalla sua originalità, dalla sua diversità.
Come fosse nulla oggi, dopo averlo rinnegato ben più delle canoniche tre volte, tutti parlano di Olivetti e lo celebrano come un imprenditore visionario. Nessuna autocritica, nessun serio pentimento. L’Italia è il paese in cui si dimentica rapidamente, soprattutto le cose scomode. Ma è anche il paese in cui il progresso va molto piano. Olivetti non avrebbe gradito di essere celebrato per ciò che non era, non un reperto proto-industriale, ma un’azienda viva. 
Sicché oggi, la forma migliore per rendergli omaggio non è aprire le porte della sua bellissima e luminosissima fabbrica come fosse un bel museo, ma diffondere e praticare a piene mani la sua cultura aziendale, i suoi insegnamenti etici e civili, il suo modello imprenditoriale di straordinario successo… ancora così lontano da tutti gli altri».

Irene Feola

Commenti

  1. Cara Irene , Adriano Olivetti era un grande uomo capace e molto generoso con i suoi lavoratori trattava tutti ingegneri e operai allo stesso modo (da padre ) non come la dinastia degli Agnelli, il guadagno in tasca a loro, i debiti li pagavamo noi Stato ITALIANO .CIAO Irene, Filippo Feola .

    RispondiElimina
  2. Analisi estremamente lucida di quello che è stata Olivetti. Manca però la parte riguardante la classe politica che, mentre distribuiva non tanto "velatamente" aiuti alla Fiat, applicando il teorema dell'avvocato (cioè che fa bene alla Fiat, fa bene all'Italia", non ha mai speso una lira per incoraggiare, nell'appartamento pubblico, prodotti Olivetti.

    RispondiElimina

Posta un commento

Che ne pensi? Lascia un commento!