"Io capitano", agli Oscar con uno sguardo diverso

 
Una scena del film

''Io Capitano'' è il nuovo film del regista romano Matteo Garrone, candidato come miglior film internazionale all'Oscar, che racconta il percorso di due giovani cugini senegalesi verso la tanto sognata Europa. Il viaggio, all'inizio, viene visto da Seydou e Moussa (i due protagonisti), come un'avventura, un qualcosa di semplice e immediato che li porterà dritti nelle braccia della fortuna e del successo. 
I due giovani lavorano di nascosto e, una volta accumulati i soldi, riescono a partire all'insegna di un viaggio che capiscono quasi subito essere molto diverso da ciò che si aspettavano. 
Seydou e Moussa percorrono il deserto, in jeep e a piedi, fino ad arrivare al confine con la Libia, dove vengono separati e arrestati dalla mafia libica. L'occhio della macchina da presa segue il punto di vista di Seydou, condotto in una cella e sottoposto a tortura. Riesce ad uscire di prigione e prosegue verso Tripoli, dove si ricongiungerà con il cugino. 
La vicenda principale è ispirata a una storia vera, quella di Fofana Amara, che a quindici anni si è visto costretto a condurre davvero la barca verso i porti dell'Italia, ma anche molti altri elementi sono stati inseriti a partire da reali esperienze, come quella del protagonista che nel carcere libico si ritrova a chiamare urlando la madre, o quella della donna che sta per partorire nel mezzo del viaggio in mare.

Una scena del film

In un'intervista alla rivista ''Cinecittà news'', Garrone dice di aver pensato al film come la necessità di raccontare questo viaggio oltre a ciò che siamo abituati a vedere, nasce quindi da un bisogno di mostrare un punto di vista che non è il nostro.

Tra i tanti elementi notevoli del film, ci tenevo particolarmente a sottolineare come non sia semplice, da occidentali, riuscire a comunicare e a parlare di una cultura estranea alla nostra riuscendo a non cadere allo storico errore dell' ''esotismo'' o, come dice Garrone stesso, nel ''fare la cartolina dell'Africa''.
Grazie invece a un immenso lavoro di documentazione e praticamente ''immersivo'' nella cultura Wolof, sono riusciti a dare uno sguardo sulla questione assolutamente autentico e non filtrato da alcuna prospettiva occidentale: il regista stesso ammette di aver avuto paura a realizzare questa sua idea, proprio per il timore di risultare ''l’ennesimo borghese che strumentalizza il viaggio del povero migrante dalla sua comoda posizione occidentale.'' Ma qual è stato questo immenso lavoro che ha preceduto la realizzazione dell'opera finale? Percorriamo insieme i passaggi di progettazione e di ripresa del film.

Innanzitutto, Garrone e Dimitri Capuana, lo sceneggiatore, hanno intrapreso un percorso di documentazione fotografica e geografica in loco durato ben due anni. La sceneggiatura, inizialmente scritta in italiano, è stata tradotta per gli attori e poi recitata in Wolof, la lingua maggiormente diffusa in Senegal.

Sabar, lo strumento musicale
I casting poi si sono svolti tra il Senegal, il Marocco e la Francia e, addirittura, è stato contattato un vero muratore marocchino per la realizzazione della scena della fontana in Libia affinché il procedimento tecnico ed estetico della fontana fosse in linea con le realizzazioni tipiche del nord Africa. Frammenti della cultura Wolof sono stati inseriti anche grazie al contributo della comunità senegalese presente a Roma: la festa rappresentata a inizio film è una festa tipica senegalese, il ''Sabar'', nome preso dal principale tamburo utilizzato, oltre che dalla danza ballata. Questo Sabar è presente nella cultura Wolof da secoli, inizialmente mezzo espressivo della filosofia di vita della tribù, è ora utilizzato principalmente come elemento festivo di buon augurio e benedizione, infatti viene praticato in eventi sociali come feste o matrimoni. Oltre al Sabar, Garrone introduce un altro aspetto della cultura locale, lo ''charlatan'' che compare nel film quando i due protagonisti vogliono consultarsi con i propri antenati sull'imminente viaggio. A differenza dello Sabar, anche solo accennare in una piccola scena al charlatan è già più complicato ed è stato qui che l'aiuto della comunità senegalese romana è stato fondamentale: per loro questa figura è considerata sacra e impenetrabile, una diretta documentazione sugli oggetti utilizzati e lo svolgimento del rituale era fondamentale per la riuscita della scena. Ma, come dichiara lo stesso Capuana, l'aspetto più importante è stato quello di implementare nella troupe professionisti e non locali, comunque persone che potessero dirigere le riprese ed evitare uno sguardo superficiale sul territorio: vi era un aiuto pittore senegalese che si è occupato delle textures all'interno delle case e dei cortili, anche i trovarobe, art director e gli assistenti arredatori erano Senegalesi.

Possiamo quindi considerare ''Io Capitano'' come un passo avanti nella rappresentazione dell'uomo nero e le sue culture in Europea, un esempio da seguire per chiunque volesse intraprendere un percorso rappresentativo fuori dagli schemi stilizzanti e minimizzanti nei riguardi di qualsiasi contesto non occidentale che spesso si vedono al cinema.

Maria Bera

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